PAGINE SPARSE
COME SI FA
UN'ACQUAFORTE
Luigi Bartolini
Si acquista una lastra di rame dello spessore di un millimetro, si fa tagliare da un lattonaio. Si fa lucidare, a specchio, da un nichelatore. In tal modo, con una lastra, grande di rame, si possono avere circa 18 lastre del formato 24 per 36.
Si va da un droghiere. Si acquista un centinaio di grammi di cera vergine. Si acquistano cinquanta grammi di asfalto in polvere impalpabile. Si acquista un poco di trementina veneta (vischio). Si torna a casa. Si accende un fornello. Vi si mette sopra una scodella con tre dita d'acqua. Dentro la scodella se ne mette un'altra, ossia si fa fondere, a bagnomaria, prima un cucchiaio di vischio, poi un pezzo di cera vergine (circa 50 grammi); vi si aggiunge, a completa fusione, un cucchiaio da tavola, di asfalto in polvere impalpabile, si tira indietro dal fuoco la scodella, si lascia raffreddare pian piano agitando con uno stecco; la miscela, raffreddandosi, intosta ed allora la si prende e, con le mani, si riduce a pallottole. Io vi metto anche il bollo: la mia marca di fabbrica, con la data. Ma codesti particolari non interessano. Quel che interessa è il modo come si fa a distendere questa «cera» sopra la lastra di rame. E si fa cosi: Prima si sgrassa la lastra, con della potassa diluita, ma calda. Per persuadersi che la lastra è sgrassata (e se non lo fosse, la cera non si attaccherebbe bene alla lastra di rame) vi si versa sopra dell'acqua: l'acqua scorrendo piana per tutti i lati indica che sopra la lastra non sono più isole di grasso o che.
Ciò fatto, si deve riscaldare la lastra; ma non arroventare; si prende la pallottola di cera, si strofina sopra la lastra calda. Al calore, la cera torna a liquefarsi. Si cerca di distribuire meglio che si può la cera sopra tutta la lastra. Si prende un tampone (un batuffolo di stoffa senza peli) e battendo sopra la lastra, a colpi sicuri assestati e rapidi, si fa in modo che la cera risulti distribuita egualmente e abbia l'altezza d'una sfoglia di cipolla (pardon: d'un petalo di rosa). Si prendono quelle candeline (da sinagoga) a sette fiammelle e con il fumo di esse si annerisce la cera. Se uno è bravo, risulterà così, sopra il rame, una superfìcie di cera sottile, nera, lucida, aderente, resistente all'acido nitrico, morbida più o meno alla punta che l'incisore adopera per disegnare. Come si è capito, ormai si tratta di disegnare. Con una punta (d'acciaio o di ferro, ma anche se si tratti di chiodo aguzzato è lo stesso: basta saper disegnare, il che è difficile), si tratta di scalfire la cera ossia, con una o più punte, disegnare sopra la superficie della lastra, togliendole filettini, pressoché invisibili, di cera. Quei filettini - che han generato sulla superficie della cera, dei solchi - hanno messo a scoperto il rame.
Schizzo di torchio
per stampa di acqueforti
Invenzione dell'A.
per stampa di acqueforti
Invenzione dell'A.
L. Bartolini - La buona notte - 1934 - Acquaforte
E siccome l'acido nitrico non morde la cera, ma morde il rame, se si prenderà una bacinella e vi si porrà la lastra (su entrambe le facce coperta di cera) (il rovescio, non disegnato, già sarà stato ricoperto di cera diluita con grasso ed essenza di trementina e rafforzato di asfalto e trementina veneta) l'acido mangerà dentro i solchi scoperti, ossia inciderà il disegno sopra la lastra. Certamente, a dirla così, la cosa sembra semplice; ma, all'atto pratico, si incontrano difficoltà di vario genere. E, per esempio, per cancellare una parte di disegno graffiata male si dovrà prendere un pennello, intingerlo nella cera diluita in essenza di trementina e, con essa, cancellare. Anche tale vernice dovrà essere formata di più parti di asfalto che parti di cera. Sapendo fare molto si può cancellare sopra la lastra e rifare il disegno tantissime volte. Si può anche spargere, a freddo, una specie di vernice la quale ricopra tutta la lastra. Si possono fare tanti altri giochi maestri. Si può giocare di prestigio come si vuole, ma, prima, occorre una esperienza di venti anni.
La sostanza è quella di cavar fuori, da una lastra di rame, e mediante i due contrapposti: cera ed acido nitrico, un disegno da valere un poema.
Certo è che sopra nessuna carta si disegna cosi bene, cosi dolce, così in trance, come sopra una polita lastra di rame. Certo è che nessuna matita disegna cosi sottilmente, e se si desidera, così potentemente, quanto disegna, graffiando, una punta. Le punte da adoperare possono essere più d'una. Io ne ho sempre nelle tasche, una dozzena: ma codesti sono particolari da trattato.
L. Bartolini
Portatori d'acqua
con le orecchie
1943-51 - Acquaforte
Incisa la lastra, eccoci al momento emozionante — anche per l'acrobata ed arcivecchio acquafortista - della «scoperchiatura» ossia del togliere la cera dalla lastra per vedere come l'acido nitrico ha morso. L'acido nitrico è un traditore. Oggi morde molto, domani pochissimo. Va con la luna: sente il tempo buono e cattivo. Come gli altri uomini adoperano il barometro, così noi acquafortisti, ci regoliamo dall'umore dell'acido per sapere quale tempo farà domani.
Qualche volta, quando è bel tempo, ci illudiamo l'acido morda: ma andiamo a scoperchiare e vediamo che egli ci ha tradito. Vuol dire che domani farà pioggia. Altre volte, invece, l'acido nitrico mangia come lupo. Divora, ed anche la povera cera ed il resistente asfalto e la appiccicosa veneta tramentina. Mangia, rode, distrugge, allarga i segni, fora addirittura la lastra, da parte a parte. Per regolarsi volendo conoscere gli umori di tanta bestia (che, con i suoi fumi, rovina i polmoni di uno che stia sopra la bacinella troppi minuti) i modi sono tantissimi. Non costituiscono segreti di mestiere; ma a darli completamente occorrerebbe un trattato. Quindi, per farla breve, dirò che qualche cosa di detti umori si può conoscere mediante una punta strofinata fra segno e segno: se si sente ostacolo, allora vuoi dire che l'acido ha intaccato bene. Se no, male. L'acido nitrico quando ha umore buono, morde - direi, ridendo - mediante una infinità di bollicine, che dapprima sembrano schiuma, sollevata dai solchi, poi diventa verde fioritura: più esse sono verdi e più l'acido ha umore buono.
Se poi uno non vuol trattare con l'acido nitrico, può, in sua sostituzione, trattare... con l'acido cloridrico. L'acido nitrico, che si usa per mordere bene, occorre diluirlo con acqua e ridurlo a circa 20 gradi (cioè si mette una metà d'acqua, nell'acido che si trova in commercio). L'acido cloridrico si diluisce di più ancora e fino a tanto che non fumi.
In una bacinella, dove sia un litro d'acqua e mezzo bicchiere di acido cloridrico, si aggiungeranno alcuni grammi di sale da cucina, ed altrettanti di clorato di potassio. L'acido cloridrico è un vero signore. Umanissimo, lavora lento lento. Non tradisce mai. Morde in profondità e non allarga i segni. Si può andare a dormire e, al mattino, trovare la lastra incisa quel tanto che si desidera.
V'è poi un terzo mordente che io ho adoperato tante volte, con risultati buoni, ed è quello del Piranesi. Bellissimo di colore; di odore non ripugnante; sa di cantina ricca e particolare. Sa di vino. Infatti si fa con l'aceto, il sale da cucina, l'ammoniaca ed il solfato di rame. Io lo uso per incidere lo zinco e credo nessun mordente lo incida meglio di lui. Offre anche il vantaggio di generare, durante il bagno, sopra i segni, uno strato sottile di nero assomigliante a come sarà l'acquaforte dopo stampata.
Ciò detto - molto all'ingrosso e per i profani - dirò della stampa delle lastre incise.
Si prende della carta senza colla (carta asciugante, carte da filtro, carta, a volte che costa nulla, oppure, a seconda dei casi si prende una carta nobile, papale, ducale, delle cartiere di Fabriano o di quelle di Mansiliago, etc., oppure carta cinese, carta giapponese). Le carte si debbono bagnare. Debbono diventare morbide morbide come carne, come tessuto di adipe: come burro o poco più: giacché debbono entrare negli intagli (ossia solchi) della lastra di rame.
Entrando nei solchi già pieni di inchiostro da stampa (nero fumo con olio cotto e stracotto), il foglio assorbe e porta con sé l'inchiostro. La cosa sembra, al solito, facile: ma, a me, per stampare bene, sono occorsi, ripeto, venti anni di mestiere. Soltanto in questi ultimi anni ho capito cosa vuol dire bagnare bene la carta: e sapere scegliere la qualità, il colore, lo spessore, adatti al genere dell'incisione, in quanto al torchio, esso, teoricamente, è un'inezia; ma, in pratica, ogni torchio ha un modo di agire diverso: come fosse persona. E ve ne sono che non si mettono mai a posto, che si guastano per nulla, che non calcano bene, ossia non premono, non fanno entrare la carta, affamata d'inchiostro, nei più sottili o nei più profondi intagli del rame. La pressione del torchio deve essere al contempo dolce e potente: dolce, a persuadere la carta ad entrare negli intagli senza paura di farsi male; potente, a trarre fuori dalla lastra stessa tutto il sugo. Il torchio ideale sarebbe il pollice di Sansone che avrebbe forza e dolcezza.
L. Bartolini
Primavera in Osimo
1933-34 - Acquaforte
Primavera in Osimo
1933-34 - Acquaforte
L. Bartolini - Gli amanti - 1943 - Acquaforte
Per stampare si fa, presso a poco, così: col tampone si sparge inchiostro sopra la lastra riscaldata. Si deve spargere eguale su tutto il rame. Poi, aiutandosi con veli di tarlatana (io adopero calze femminili fuori uso, stracciate) si toglie l'inchiostro dagli spazi piani: si che l'inchiostro rimane soltanto dentro i segni. Il torchio è, presso a poco, composto di due cilindri pressati uno contro l'altro, da due viti.
La lastra, e sopra ad essa la carta e i panni di moleschino, debbono, insieme passare fra i due cilindri, e, passando, stampare.
Quando si va a sollevare, da sopra la lastra, la carta, accade che, su dieci volte, soltanto una, la prova di stampa è riuscita bene; ma neppure questa volta riuscita come la si desiderava.
Così è incidere all'acquaforte. Ma perché, dunque, si fatica tanto, quando, e con un semplice foglio di carta, si potrebbe fare tanto presto senza tanta rocamboleria un disegno bianco e nero?
- Signore mio, allora vi domanderò perché vi sono delle farfalle dalle ali azzurre, anziché essere delle comuni farfalle bianche?
Delle rose rosse, d'un rosso che i giardinieri distinguono per il più bello quale per una rosa si possa immaginare? Perché, dunque, e con tante cure sapienti, vengono alcune rose allevate nei nobili giardini? Per chi si accontenta d'una farfalluccia cavolaia qualunque, l'acquaforte - io lo so - rappresenta un di più, vano; una nobiltà sì, troppo gentile, troppo sottile, troppo profonda, pressocché inaccessibile e, purtroppo, inaccessibile a tantissimi.
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